E’ venuta la pienezza dei tempi.
Dio manda il suo Figlio sulla terra”
(Salmo 129 )
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Le parole di Pietro
Il tesoro più grande è la fratellanza La guerra, virus ancora senza vaccino
Pubblichiamo il testo integrale del Messaggio che papa Francesco ha scritto in vista della 56ª Giornata mondiale della pace, che la Chiesa celebrerà il 1° gennaio 2023. Il Messaggio si intitola «Nessuno può salvarsi da solo», con uno sguardo rivolto alla ripresa dopo la pandemia da Covid 19. Di seguito il testo del Messaggio.
Nessuno può salvarsi da solo.
Ripartire dal Covid-19 per tracciare insieme sentieri di pace «Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte» (Prima Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi 5,1-2).
- Con queste parole, l’Apostolo Paolo invitava la comunità di Tessalonica perché, nell’attesa dell’incontro con il Signore, restasse salda, con i piedi e il cuore ben piantati sulla terra, capace di uno sguardo attento sulla realtà e sulle vicende della storia. Perciò, anche se gli eventi della nostra esistenza appaiono così tragici e ci sentiamo spinti nel tunnel oscuro e difficile dell’ingiustizia e della sofferenza, siamo chiamati a tenere il cuore aperto alla speranza, fiduciosi in Dio che si fa presente, ci accompagna con tenerezza, ci sostiene nella fatica e, soprattutto, orienta il nostro cammino. Per questo San Paolo esorta costantemente la Comunità a vigilare, cercando il bene, la giustizia e la verità: « Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri» (5,6). È un invito a restare svegli, a non rinchiuderci nella paura, nel dolore o nella rassegnazione, a non cedere alla distrazione, a non scoraggiarci ma ad essere invece come sentinelle capaci di vegliare e di cogliere le prime luci dell’alba, soprattutto nelle ore più buie. 2. Il Covid-19 ci ha fatto piombare nel cuore della notte, destabilizzando la nostra vita ordinaria, mettendo a soqquadro i nostri piani e le nostre abitudini, ribaltando l’apparente tranquillità anche delle società più privilegiate, generando disorientamento e sofferenza, causando la morte di tanti nostri fratelli e sorelle. Spinti nel vortice di sfide improvvise e in una situazione che non era del tutto chiara neanche dal punto di vista scientifico, il mondo della sanità si è mobilitato per lenire il dolore di tanti e per cercare di porvi rimedio; così come le Autorità politiche, che hanno dovuto adottare notevoli misure in termini di organizzazione e gestione dell’emergenza.
Assieme alle manifestazioni fisiche, il Covid-19 ha provocato, anche con effetti a lungo termine, un malessere generale che si è concentrato nel cuore di tante persone e famiglie, con risvolti non trascurabili, alimentati dai lunghi periodi di isolamento e da diverse limitazioni di libertà.
Inoltre, non possiamo dimenticare come la pandemia abbia toccato alcuni nervi scoperti dell’assetto sociale ed economico, facendo emergere contraddizioni e disuguaglianze. Ha minacciato la sicurezza lavorativa di tanti e aggravato la solitudine sempre più diffusa nelle nostre società, in particolare quella dei più deboli e dei poveri. Pensiamo, ad esempio, ai milioni di lavoratori informali in molte parti del mondo, rimasti senza impiego e senza alcun supporto durante tutto il periodo di confinamento.
Raramente gli individui e la società progrediscono in situazioni che generano un tale senso di sconfitta e amarezza: esso infatti indebolisce gli sforzi spesi per la pace e provoca conflitti sociali, frustrazioni e violenze di vario genere. In questo senso, la pandemia sembra aver sconvolto anche le zone più pacifiche del nostro mondo, facendo emergere innumerevoli fragilità.
- Dopo tre anni, è ora di prendere un tempo per interrogarci, imparare, crescere e lasciarci trasformare, come singoli e come comunità; un tempo privilegiato per prepararsi al “giorno del Signore”. Ho già avuto modo di ripetere più volte che dai momenti di crisi non si esce mai uguali: se ne esce o migliori o peggiori. Oggi siamo chiamati a chiederci: che cosa abbiamo imparato da questa situazione di pandemia? Quali nuovi cammini dovremo intraprendere per abbandonare le catenedelle nostre vecchie abitudini, per essere meglio preparati, per osare la novità? Quali segni di vita e di speranza possiamo cogliere per andare avanti e cercare di rendere migliore il nostro mondo?
Di certo, avendo toccato con mano la fragilità che contraddistingue la realtà umana e la nostra esistenza personale, possiamo dire che la più grande lezione che il Covid-19 ci lascia in eredità è la consapevolezza che abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, che il nostro tesoro più grande, seppure anche più fragile, è la fratellanza umana, fondata sulla comune figliolanza divina, e che nessuno può salvarsi da solo. È urgente dunque ricercare e promuovere insieme i valori universali che tracciano il cammino di questa fratellanza umana. Abbiamo anche imparato che la fiducia riposta nel progresso, nella tecnologia e negli effetti della globalizzazione non solo è stata eccessiva, ma si è trasformata in una intossicazione individualistica e idolatrica, compromettendo la garanzia auspicata di giustizia, di concordia e di pace. Nel nostro mondo che corre a grande velocità, molto spesso i diffusi problemi di squilibri, ingiustizie, povertà ed emarginazioni alimentano malesseri e conflitti, e generano violenze e anche guerre. Mentre, da una parte, la pandemia ha fatto emergere tutto questo, abbiamo potuto, dall’altra, fare scoperte positive: un benefico ritorno all’umiltà; un ridimensionamento di certe pretese consumistiche; un senso rinnovato di solidarietà che ci incoraggia a uscire dal nostro egoismo per aprirci alla sofferenza degli altri e ai loro bisogni; nonché un impegno, in certi casi veramente eroico, di tante persone che si sono spese perché tutti potessero superare al meglio il dramma dell’emergenza.
Da tale esperienza è derivata più forte la consapevolezza che invita tutti, popoli e nazioni, a rimettere al centro la parola “insieme”.
Infatti, è insieme, nella fraternità e nella solidarietà, che costruiamo la pace, garantiamo la giustizia, superiamo gli eventi più dolorosi. Le risposte più efficaci alla pandemia sono state, in effetti, quelle che hanno visto gruppi sociali, istituzioni pubbliche e private, organizzazioni internazionali uniti per rispondere alla sfida, lasciando da parte interessi particolari. Solo la pace che nasce dall’amore fraterno e disinteressato può aiutarci a superare le crisi personali, sociali e mondiali. 4. Al tempo stesso, nel momento in cui abbiamo osato sperare che il peggio della notte della pandemia
da Covid- 19 fosse stato superato, una nuova terribile sciagura si è abbattuta sull’umanità. Abbiamo assistito all’insorgere di un altro flagello: un’ulteriore guerra, in parte paragonabile al Covid-19, ma tuttavia guidata da scelte umane colpevoli. La guerra in Ucraina miete vittime innocenti e diffonde incertezza, non solo per chi ne viene direttamente colpito, ma in modo diffuso e indiscriminato per tutti, anche per quanti, a migliaia di chilometri di distanza, ne soffrono gli effetti collaterali – basti solo pensare ai problemi del grano e ai prezzi del carburante.
Di certo, non è questa l’era post-Covid che speravamo o ci aspettavamo. Infatti, questa guerra, insieme a tutti gli altri conflitti sparsi per il globo, rappresenta una sconfitta per l’umanità intera e non solo per le parti direttamente coinvolte. Mentre per il Covid-19 si è trovato un vaccino, per la guerra ancora non si sono trovate soluzioni adeguate. Certamente il virus della guerra è più difficile da sconfiggere di quelli che colpiscono l’organismo umano, perché esso nonproviene dall’esterno, ma dall’interno del cuore umano, corrotto dal peccato (cfr Vangelo di Marco7,17-23).
- Cosa, dunque, ci è chiesto di fare? Anzitutto, di lasciarci cambiare il cuore dall’emergenza che abbiamo vissuto, di permettere cioè che, attraverso questo momento storico, Dio trasformi i nostri criteri abituali di interpretazione del mondo e della realtà. Non possiamo più pensare solo a preservare lo spazio dei nostri interessi personali o nazionali, ma dobbiamo pensarci alla luce del bene comune, con un senso comunitario, ovvero come un “noi” aperto alla fraternità universale. Non possiamo perseguire solo la protezione di noi stessi, ma è l’ora di impegnarci tutti per la guarigione della nostra società e del nostro pianeta, creando le basi per un mondo più giusto e pacifico, seriamente impegnato alla ricerca di un bene che sia davvero comune.
Per fare questo e vivere in modo migliore dopo l’emergenza del Covid-19, non si può ignorare un dato fondamentale: le tante crisi morali, sociali, politiche ed economiche che stiamo vivendo sono tutte interconnesse, e quelli che guardiamo come singoli problemi sono in realtà uno la causa o la conseguenza dell’altro. E allora, siamo chiamati a far fronte alle sfide del nostro mondo con responsabilità e compassione.
Dobbiamo rivisitare il tema della garanzia della salute pubblica per tutti; promuovere azioni di pace per mettere fine ai conflitti e alle guerre che continuano a generare vittime e povertà; prenderci cura in maniera concertata della nostra casa comune e attuare chiare ed efficaci misure per far fronte al cambiamento climatico; combattere il virus delle disuguaglianze e garantire il cibo e un lavoro dignitoso per tutti, sostenendo quanti non hanno neppure un salario minimo e sono in grande difficoltà. Lo scandalo dei popoli affamati ci ferisce. Abbiamo bisogno di sviluppare, con politiche adeguate, l’accoglienza e l’integrazione, in particolare nei confronti dei migranti e di coloro che vivono come scartati nelle nostre società. Solo spendendoci in queste situazioni, con un desiderio altruista ispirato all’amore infinito e misericordioso di Dio, potremo costruire un mondo nuovo e contribuire a edificare il Regno di Dio, che è Regno di amore, di giustizia e di pace. Nel condividere queste riflessioni, auspico che nel nuovo anno possiamo camminare insieme facendo tesoro di quanto la storia ci può insegnare. Formulo i migliori voti ai Capi di Stato e di Governo, ai Responsabili delle Organizzazioni internazionali, ai Leaders delle diverse religioni. A tutti gli uomini e le donne di buona volontà auguro di costruire giorno per giorno, come artigiani di pace, un buon anno! Maria Immacolata, Madre di Gesù e Regina della Pace, interceda per noi e peril mondo intero.
Francesco
© LIBRERIA EDITRICE VATICANA
Dobbiamo prenderci cura in maniera concertata della nostra casa comune e attuare chiare ed efficaci misure per far fronte al cambiamento climatico; combattere il virus delle disuguaglianze e garantire il cibo e un lavoro dignitoso per tutti. Lo scandalo dei popoli affamati ci ferisce
Abbiamo bisogno di sviluppare, con politiche adeguate, l’accoglienza e l’integrazione, in particolare nei confronti dei migranti e di coloro che vivono come scartati nelle nostre società
Dio trasformi i nostri criteri di interpretazione del mondo e della realtà. Non possiamo più pensare solo a preservare lo spazio dei nostri interessi personali o nazionali, ma dobbiamo pensarci alla luce del bene comune, con un senso comunitario, ovvero come un “noi” aperto alla fraternità universale
L’INTERVISTA
LE PAROLE ALL’ANGELUS
La meditazione di Francesco: l’Avvento è il tempo per ribaltare le prospettive
Il dubbio come occasione «essenziale per la crescita spirituale». È uno dei passaggi della riflessione che papa Francesco ha svolto prima della recita dell’Angelus domenica scorsa prendendo spunto dal brano evangelico che ha come protagonista Giovanni Battista. Dopo la preghiera il Papa ha ricordato la figura della nuova beata Isabel Cristina Mrad Campos, beatificata sabato in Brasile, uccisa nel 1982 in odio alla fede per difendere la sua castità. «Il suo eroico esempio – ha aggiunto il Papa – possa stimolare in particolare i giovani a rendere una generosa testimonianza di fede e di adesione al Vangelo». Dolore e preoccupazione è stata espressa dal Papa per le notizie che giungono dal Sud Sudan: «Preghiamo il Signore per la pace e la riconciliazione nazionale, affinché cessino gli attacchi e siano sempre rispettati i civili».Rivolgendosi ai pellegrini di lingua italiana il Papa ha rivolto un saluto speciale ai detenuti del carcere padovano «Due Palazzi», ai gruppi parrocchiali di Terni, Panzano in Chianti, Perugia, Nozza di Vestone, al coro degli alpini di Roma, e ai «rappresentanti dei cittadini che vivono nelle aree più inquinate dell’Italia, auspicando una giusta soluzione ai loro gravi problemi e alle malattie che vengono da questo ambiente inquinato ». Ha quindi concluso il momento di preghiera con la benedizione di «Bambinelli» da mettere nel presepe portati dai bambini e dai ragazzi. Di seguito le parole del Papa.
Cari fratelli e sorelle, buona domenica! Il Vangelo di questa terza domenica di Avvento ci parla di Giovanni Battista che, mentre si trova in carcere, manda i suoi discepoli a chiedere a Gesù: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» ( Mt 11,4). Infatti Giovanni, sentendo parlare delle opere di Gesù, è colto dal dubbio se sia davvero Lui il Messia oppure no. Infatti egli pensava a un Messia severo che, arrivando, avrebbe fatto giustizia con potenza castigando i peccatori. Ora, invece, Gesù ha parole e gesti di compassione verso tutti, al centro del suo agire c’è la misericordia che perdona, per cui «i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo » (v. 5). Ci fa bene però soffermarci su questa crisi di Giovanni il Battista, perché può dire qualcosa di importante anche a noi. Il testo sottolinea che Giovanni si trova in carcere, e questo, oltre che al luogo fisico, fa pensare alla situazione interiore che sta vivendo: in carcere c’è oscurità, manca la possibilità di vedere chiaro e di vedere oltre. In effetti, il Battista non riesce più a riconoscere Gesù come Messia atteso. È assalito dal dubbio e invia i discepoli a verificare: “Andate a vedere se è il Messia o no”. Ci meraviglia che ciò accada proprio a Giovanni, il quale aveva battezzato Gesù nel Giordano e lo aveva indicato ai suoi discepoli come l’Agnello di Dio (cfr Gv 1,29). Ma ciò significa che anche il più grande
credente attraversa il tunnel del dubbio. E questo non è un male, anzi, talvolta è essenziale per la crescita spirituale: ci aiuta a capire che Dio è sempre più grande di come lo immaginiamo; le opere che compie sono sorprendenti rispetto ai nostri calcoli; il suo agire è diverso, sempre, supera i nostri bisogni e le nostre attese; e perciò non dobbiamo mai smettere di cercarlo e di convertirci al suo vero volto. Un grande teologo diceva che Dio «occorre riscoprirlo a tappe… talvolta credendo di perderlo» (H. de Lubac, Sulle vie di Dio, Milano 2008, 25). Così fa il Battista: nel dubbio, lo cerca ancora, lo interroga, “discute” con Lui e finalmente lo riscopre. Giovanni, definito da Gesù il più grande tra i nati di donna (cfr Mt11,11), ci insegna insomma a non chiudere Dio nei nostri schemi. Questo è sempre il pericolo, la tentazione: farci un Dio a nostra misura, un Dio per usarlo. E Dio è altra cosa.
Fratelli e sorelle, anche noi a volte possiamo trovarci nella sua situazione, in un carcere interiore, incapaci di riconoscere la novità del Signore, che forse teniamo prigioniero della presunzione di sapere già tutto su di Lui. Cari fratelli e sorelle, mai si sa tutto su Dio, mai! Magari abbiamo nella testa un Dio potente che fa ciò che vuole, anziché il Dio dell’umile mitezza, il Dio della misericordia e dell’amore, che interviene sempre rispettando la nostra libertà e le nostre scelte. Magari viene anche a noi da dirgli: “Sei davvero Tu, così umile, il Dio che viene a salvarci?”. E può capitarci qualcosa di simile anche con i fratelli: abbiamo le nostre idee, i nostri pregiudizi e affibbiamo agli altri – specialmente a chi sentiamo diverso da noi – delle rigide etichette. L’Avvento, allora, è un tempo di ribaltamento di prospettive,dove lasciarci stupire dalla grandezza della misericordia di Dio. Lo stupore: Dio sempre stupisce\\. (L’abbiamo visto, poco fa, nel programma “A Sua immagine”, stavano parlando dello stupore). Dio sempre è Colui che suscita in te lo stupore. Un tempo – l’Avvento – in cui, preparando il presepe per il Bambino Gesù, impariamo di nuovo chi è il nostro Signore; un tempo in cui uscire da certi schemi, da certi pregiudizi verso Dio e i fratelli.
L’Avvento è un tempo in cui, anziché pensare ai regali per noi, possiamo donare parole e gesti di consolazione a chi è ferito, come ha fatto Gesù con i ciechi, i sordi e gli zoppi.
La Madonna ci prenda per mano, come mamma, ci prenda per mano in questi giorni di preparazione al Natale e ci aiuti a riconoscere nella piccolezza del Bambino la grandezza di Dio che viene.
Francesco
«Noi, medici soli. Senza giovani né soldi i Pronto soccorso rischiano di soffocare»
ELISABETTA
GRAMOLINI
Che non sia come nelle serie tv lo si avverte già all’ingresso: decine di anziani, stretti nei cappotti, in attesa. Chi è più fortunato è sdraiato su una barella. Altri si accontentano di una sedia. In queste ore i reparti d’emergenza affondano mentre a governare gli accessi ci sono sempre meno medici. Secondo la Società italiana di medicina d’emergenza urgenza (Simeu) mancano 5mila camici bianchi. E le prospettive sono pessime: su 886 contratti di specializzazione in medicina d’urgenza per i giovani laureati nel 2022, 452 non sono stati assegnati. Il nodo sta tutto qui: a fronte di 20 milioni di ingressi l’anno, l’organico arranca e non ce la fa a rispondere nemmeno alle domande dei parenti. I dati dicono che l’82% dei pazienti viene mandato a casa e solo il 14% è ricoverato nei reparti. La metà degli urgenti resta in attesa in media nove ore, quando gli standard internazionali parlano di sei, e 800mila vengono dimessi dopo almeno due giorni di permanenza. «Sono le persone che hanno bisogno di assistenza e non trovano risposte né sul territorio né in ospedale, a volte nemmeno in famiglia», racconta ad Avvenire Fabio De Iaco, presidente della Simeu e direttore del pronto soccorso dell’ospedale Maria Vittoria di Torino.
Presidente, la rete dell’emergenza è in crisi e l’influenza non aiuta.
Che ci piaccia o no, il pronto soccorso è l’unica rete di sicurezza che esista. Aiutiamo a compensare le diseguaglianze per chi ha meno possibilità ed è intrappolato nelle liste d’attesa. Il 50% delle diagnosi di tumore avviene in pronto soccorso. I casi di influenza stanno salendo ma non abbiamo ancora raggiunto il picco.
Si rivolge a voi anche chi non dovrebbe?
Sento dire che solo il 20% dei pazienti che si rivolgono al pronto soccorso è in emergenza vera. Magari fosse così. L’emergenza pura la conosciamo noi, non il paziente. Il cittadino che avverte un dolore toracico viene da noi e fa bene. Vediamo tantissime patologie considerate a basso valore, quelle dell’anziano magari con problemi assistenziali, non solo cronici, perché vive da solo.
Secondo il ministero della Salute i medici del pronto soccorso dovrebbero essere pagati di più. Basterebbe una busta paga più pesante?
Non è una questione di soldi. Ci sono elementi che influiscono sulla qualità della vita e sulla percezione di se stessi: il sovraffollamento, le persone in barella e il dover fronteggiare tutti i giorni le domande. Le nostre richieste coincidono con quelle dei pazienti. Non è demagogia, è la verità.
Anche per questo i giovani non scelgono medicina d’urgenza?
Credo per il disagio e per la qualità della vita, se si considera che sei notti e tre weekend al mese sono la norma in molte parti d’Italia. Sono pagati come i colleghi che terminano in reparto alle 14. La legge di bilancio del 2021 istituì una indennità per infermieri e medici, noi non l’abbiamo ancora percepita. Ci sentiamo dire tutti i giorni che siamo il biglietto da visita ma la verità è che quando le cose non vanno, dobbiamo dare risposte sulle quali per primi non siamo d’accordo.
Pazienti e parenti vivono spesso l’attesa senza ricevere informazioni.
Siamo solidali con i pazienti che protestano civilmente ma non abbiamo alternative. In prontosoccorso è impossibile governare tutto, è un posto in cui ognuno gioca con la propria coscienza e capacità. Ci sono situazioni che pretendono un intervento vitale che gli altri non possono percepire e, se ci sono poche risorse, siamo costretti a fare una selezione.
Il 17 novembre avete fatto un flash mob davanti al ministero.
Possiamo anche alzare la voce, ma non siamo in grado di fare uno sciopero perché siamo un servizio essenziale e sempre al minimo assistenziale. Quello che possiamo fare è lamentarci e continuare a lavorare. Qualcuno propone di rallentare, ma non è possibile perché nei verdi e nei bianchi ci sono dei problemi enormi e se qualcuno si comportasse così commetterebbe una negligenza. Non abbiamo possibilità. L’unica cosa che possiamo fare è dire che stiamo soffocando.
Che soluzione consiglia?
Per l’organico, l’unica strada è coinvolgere gli specializzandi in maniera corretta, senza sfruttamento. Esiste un contratto in cui diamo agli specializzandi le prerogative del dirigente medico adibito a funzioni crescenti. Questa soluzione è migliore rispetto alle cooperative che oggi stanno distruggendo i servizi. Poi i posti letto che sono insufficienti andrebbero rivisti.
Il Pnrr dovrebbe aiutare la sanità territoriale.
Negli anni abbiamo visto riversare una quantità spaventosa di risorse sul territorio e contemporaneamente salire le richieste in pronto soccorso. Bisogna mettersi tutti intorno al tavolo. C’è bisogno di una grande idea di Servizio sanitario che deve adeguarsi ai tempi. Serve la politica.
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Parla De Iaco, presidente della Società di Medicina d’emergenza urgenza: siamo l’unica rete di sicurezza che esiste, ma in prima linea è impossibile governare tutto. Le proteste? Solidali, ma non abbiamo alternative «Chi arriva da noi ha bisogno di assistenza e non la trova né sul territorio, né in ospedale. Gli organici? Subito gli specializzandi»
LA DENUNCIA
Nigeria, la guerra segreta dell’esercito: migliaia di donne costrette ad abortire
MATTEO
FRASCHINI KOFFI
Lomé (Togo)
Un orrore nell’orrore. Non solo il terrorismo islamico continua a mietere vittime nel nord-est della Nigeria, ma un’inchiesta dell’agenzia di stampa Reuters ha svelato che l’esercito nigeriano ha forzato migliaia di giovani donne ad abortire, spesso a loro insaputa. Questo “programma segreto” è iniziato almeno nel 2013 e ha causato circa 10mila aborti. «Abbiamo intervistato oltre 30 vittime oltre ad alcuni soldati e operatori sanitari », affermano gli autori dell’inchiesta. « Il programma di aborto sistematico e illegale fa parte del conflitto in corso contro Boko Haram. La maggior parte delle ragazze – continua il rapporto – era stata tenuta prigioniera e violentata dai miliziani islamici». Le interviste alle vittime hanno confermato che a molte ragazze, spesso di età compresa tra i 12 e 18 anni, non è stato chiesto di dare il consenso, mentre altri aborti sono stati eseguiti all’insaputa della vittima. Chiunque resisteva veniva fisicamente costretto a obbedire. Secondo diversi testimoni, in Nigeria persiste la convinzione che «i figli dei jihadisti di Boko Haram sono predestinati, dal sangue nelle loro vene, a prendere un giorno le armi contro il governo nigeriano». I militari avrebbero quindi interrotto almeno 10mila gravidanze, ma è possibile che le vittime superino lil numero di 12mila.
«Alle giovani donne venivano somministrate iniezioni e pillole per indurre l’aborto – spiega l’inchiesta –, mentre altre sono state sottoposte ad aborti chirurgici ». Inoltre, alcune vittime del programma segreto sarebbero morte a causa dell’intervento subito. Le accuse sono state completamente respinte dall’esercito nigeriano attraverso il proprio capo di stato maggiore della difesa, il generale Lucky Irabor: «Questo rapporto non ha alcun senso», ha dichiarato alla stampa Irabor. « L’inchiesta fa parlare alcune decine di fonti anonime e denuncia un programma che avrebbe organizzato oltre 10mila aborti? Per il momento – ha concluso il generale nigeriano –, non abbiamo alcuna intenzione di investigare tali menzogne probabilmente inventate per danneggiare l’im-magine del nostro Paese».
L’esercito si è spesso lamentato con i media rispetto alla mancanza di interesse quando i militari raggiungono risultati positivi: le centinaia di civili liberate dalla prigionia di Boko Haram, come le circa 200 delle 275 ragazze rapite nel villaggio di Chibok nel 2014; o la resa di numerosi giovani jihadisti che vengono poi seguiti da vari programmi di recupero fisico e psicologico. Nonostante le autorità nigeriane sembrino determinate a non dare peso alle accuse dellaReuters, il segretario generale
dell’Onu, Antonio Guterres, ha chiesto al presidente nigeriano, Muhammadu Buhari, di «lanciare immediatamente un’indagine indipendente e approfondita per stabilire – continuava la nota di Guterres – chi siano i responsabili di tale programma». Anche l’amministrazione Biden si è detta «profondamente turbata» e ha esortato la Nigeria a «considerare seriamente le accuse». L’aborto è illegale nel Paese tranne quando la vita della madre è in pericolo. Nel Nord, abitato principalmente da nigeriani appartenenti alla comunità islamica, l’interruzione illegale della gravidanza può essere punita con una pena detentiva di 14 anni.
La situazione nel nord-est del Paese rimane comunque molto complessa. Negli ultimi tre anni, in seguito alla liberazione di diverse ragazze che hanno sposato e avuto figli con comandanti della setta jihadista, alcune donne sono fuggite dai centri di recupero e hanno nuovamente raggiunto le basi dei militanti islamici. « Diverse ragazze tornano per salutare la loro famiglia ma poi si riuniscono con i loro sequestratori – affermano fonti dell’esercito –. Tali comportamenti sono causati dall’indottrinamento subito durante la prigionia ». La Nigeria, lo Stato più popoloso del Continente con 211 milioni di abitanti e la maggiore economia dell’Africa, organizzerà le elezioni a febbraio del 2023. Dopo due mandati, l’eredità lasciata dal presidente Buhari rispetto a una Nigeria più sicura ha deluso non solo i nigeriani ma anche gran parte della comunità internazionale. Dall’inizio del conflitto nel 2009, sono «almeno 40mila le vittime e oltre 2 milioni i profughi».
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Più di 10mila le interruzioni di gravidanza praticate a partire dal 2013. L’orrore nell’orrore: la maggior parte delle ragazze tenuta prigioniera e violentata dai miliziani di Boko Haram. I militari respingono le accuse
La guerra in Europa
Kiev: «Torturati anche i bambini» Mosca: i Patriot Usa sono bersagli
LUCA
MIELE
L’attacco quando il buio ricopriva ancora Kiev «per eludere le nostre difese aeree». Kiev si è risvegliata ieri tra le esplosioni provocate da uno sciame di droni russi. «Li abbiamo abbattuti, in tutto erano tredici», ha fatto sapere poi il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Uno dei droni kamikaze lanciati aveva la scritta «Per Ryazan!!!» in russo: lo ha affermato la portavoce dei servizi di soccorso della capitale, Svitlana Vodolaga. Il 5 dicembre scorso era stata attaccata una base aerea militare russa nella città di Ryazan, nell’ovest della Russia. Secondo il ministero della Difesa russo, nell’attacco sono morti tre soldati e un bombardiere russo Tu-95 – utilizzato per attaccare l’Ucraina – era stato danneggiato. La Russia ha fatto sapere che nel caso gli Stati Uniti fornissero i sistemi di difesa aerea Patriot a Kiev – la decisione americana potrebbe arrivare già oggi -, questi verrebbero considerati come obiettivi legittimi per gli attacchi russi.
E mentre il Cremlino fa sapere che un cessate il fuoco » natalizio non è all’ordine del giorno, nelle ultime 24 ore – secondo quanto ha fatto sapere Kiev – nelle regioni di Kharkiv, Donetsk e Zaporizhzhia «il nemico ha lanciato un attacco aereo e 11 missilistici, tre dei quali su infrastrutture civili e ha lanciato più di 60 attacchi con lanciarazzi». Proiettili russi hanno colpito l’edificio dell’amministrazione regionale nella piazza centrale della città meridionale di Kherson. Sempre a Kherson le autorità ucraine affermano di aver scoperto una camera che i russi usavano per detenere e torturare i bambini durante l’occupazione. Lo ha riferito Dmytro Lubinets, commissario per i diritti umani della Verkhovna Rada, il Parlamento unicamerale ucraino. Per gli analisti militari le operazioni militari sul terreno potrebbero “congelarsi” per l’inverno, anche se i feroci combattimenti continuano, specialmente nella regione di Donetsk, dove le forze russe stanno spingendo per conquistare la città di Bakhmut. Ieri intanto si è riaperto il canale delle trattative per il rilascio di prigionieri. Sessantaquattro ucraini e un americano sono stati rilasciati in uno scambio di prigionieri con la Russia. Per il capo del Comitato internazionale della Croce Rossa c’è la possibilità di un accordo per un importante scambio di prigionieri di guerra nel conflitto Ucraina-Russia. «In uno scambio tutti per tutti, è successo in passato, è una pratica nota e può accadere anche nel conflitto internazionale Russia-Ucraina», ha affermato Mirjana Spoljaric Egger, non aggiungendo altri particolari.
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RICCARDO
MICHELUCCI
Non arriverà prima della metà di gennaio la sentenza definitiva sul caso di Vitaliy Alekseienko, l’obiettore di coscienza ucraino condannato in primo grado a un anno di carcere per il reato di «elusione del servizio militare durante la mobilitazione ». Lunedì scorso la Corte d’Appello di Ivano-Frankivs’k doveva discutere il ricorso ma l’udienza è saltata all’ultimo momento, a causa di un blackout elettrico che ha paralizzato il tribunale. Alekseienko, cristiano evangelicale, potrebbe diventare il primo obiettore per motivi religiosi condannato in via definitiva in Ucraina dall’inizio dell’invasione russa. O almeno il primo di cui si abbia al momento notizia.
«Si tratta di una condanna senza sospensione condizionale che, se confermata, vedrà l’imputato andare in carcere nonostante la pena lieve. Inoltre non ha mostrato alcun rimorso e quindi la sua richiesta di libertà vigilata sarà quasi sicuramente respinta». A spiegarci la dinamica processuale è l’avvocato Nicola Canestrini, che nei giorni scorsi si è recato in Ucraina come osservatore internazionale su mandato del Movimentononviolento italiano e nonostante il rinviodell’udienza è riuscito a incontrare l’imputato, il suo legale e il presidente del tribunale. «Essendoreo confesso, Alekseienko ha ottenuto una pena
ridotta rispetto al minimo di tre anni di reclusione previsto dall’articolo 336 del codice penale ucraino ma sulla legittimità del processo sorge qualche dubbio, perché è andato alla prima udienza senza un avvocato e nessuno gli ha spiegato le conseguenze della sua confessione”.
«In ogni caso – prosegue Canestrini –, lui non intende pentirsi perché ritiene di non aver commesso alcun reato ed è profondamente deluso dalla giustizia del suo Paese. La Costituzione ucraina garantisce infatti il diritto all’obiezione di coscienza soltanto a chi appartiene a una delle confessioni religiose incluse in uno specifico elenco redatto dal governo. E la sua non compare tra quelle».
Se nel processo d’appello sarà fatto riferimento alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo – so-stiene ancora l’avvocato italiano, il caso di Vitaliy Alekseienko potrebbe essere portato di fronte alla Corte di giustizia di Strasburgo per violazione di un diritto fondamentale. Un principio riconosciuto dalla stessa Corte per la prima volta nel 2011, nel caso di un obiettore armeno testimone di Geova, che potrebbe costituire un precedente anche per i circa cinquemila obiettori ucraini che rischiano un procedimento penale.
«La vicenda di Alekseienko ha acceso i riflettori dei media e dell’opinione pubblica sull’obiezione di coscienza in Ucraina. Oggi a difendere un obiettore di coscienza ucraino, mentre la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica è per la mobilitazione armata, ci vuole coraggio», precisa il presidente del Movimento nonviolento italiano, Mao Valpiana. Nella sua missione a Ivano-Frankivs’k Canestrini ha ottenuto anche ilsostegno dell’Ordine degli avvocati ucraini. «Da loro ho riscontrato grande sensibilità per la difesa dei diritti di chi obietta. Purtroppo, però, gli avvocati che difendono chi è accusato di certi reati sono a loro volta oggetto di attacchi da parte della popolazione mentre il governo ucraino cerca di colpire l’indipendenza degli avvocati difensori condizionandone l’esercizio professionale, come accade comunemente in Stati autoritari come la Cina e la Turchia».
«Inoltre – conclude Canestrini – i legali che continuano a esercitare nei territori occupati dell’Ucraina finiscono spesso per essere incriminati dalle autorità di Kiev per alto tradimento e collaborazionismo con il nemico. Si trovano quindi di fronte al dilemma se garantire o meno il diritto alla difesa. Un diritto che in democrazia non dovrebbe mai essere limitato».
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Rinviato il processo all’obiettore per motivi religiosi Alekseienko «L’ucraino non si pente perché crede di essere nel giusto» spiega l’avvocato Nicola Canestrini, che si è recato a Ivano-Frankivs’k come osservatore su mandato del Movimento nonviolento italiano Il caso potrebbe finire alla Corte di giustizia
L’udienza generale
Il Papa: un Natale con regali più umili Diamo quel che risparmiamo all’Ucraina
Il Papa ieri è tornato a occuparsi del dramma ucraino. A fornirgli l’occasione, a margine dell’udienza generale, è stato il richiamo alle imminenti festività natalizia. «Si soffre tanto in Ucraina – ha sottolineato il Pontefice –, tanto, tanto!». È bello festeggiare il Natale» – ha continuato Francesco – ma sarebbe opportuno farlo abbassando un po’ il livello delle spese. «Facciamo un Natale più umile – ha chiesto dunque il Papa – , con regali più umili». E poi «inviamo quello che risparmiamo al popolo ucraino, che ha bisogno, soffre tanto; fanno la fame, sentono il freddo e tanti muoiono perché non ci sono medici, infermieri a portata di mano. Non dimentichiamo – ha concluso Francesco – : Natale in pace con il Signore, ma con gli ucraini nel cuore. E facciamo qualche gesto concreto per loro».
Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Entriamo ormai nella fase finale di questo percorso di catechesi sul discernimento. Siamo partiti dall’esempio di sant’Ignazio di Loyola; abbiamo poi considerato gli elementi del discernimento – cioè la preghiera, il conoscere sé stessi, il desiderio e il “libro della vita” –; ci siamo soffermati sulla desolazione e la consolazione, che ne formano la “materia”; e quindi siamo giunti alla conferma della scelta fatta.
Ritengo necessario inserire a questo punto il richiamo a un atteggiamento essenziale affinché tutto il lavoro fatto per discernere il meglio e prendere la buona decisione non vada perduto, e questo sarebbe l’atteggiamento della vigilanza. Noi abbiamo fatto il discernimento, consolazione e desolazione; abbiamo scelto una cosa…tutto va bene, ma adesso vigilare: l’atteggiamento della vigilanza. Perché in effetti il rischio c’è, come abbiamo sentito nel brano del Vangelo che è stato letto. Il rischio c’è, ed è che il “guastafeste”, cioè il Maligno, possa rovinare tutto, facendoci tornare al punto di partenza, anzi, in una condizione ancora peggiore. E questo succede, per questo bisogna stare attenti e vigilare. Ecco perché è indispensabile essere vigilanti. Pertanto oggi mi è sembrato opportuno mettere in risalto questo atteggiamento, di cui tutti abbiamo bisogno perché il processo di discernimento vada a buon fine e rimanga lì.
I n effetti, nella sua predicazione Gesù insiste molto sul fatto che il buon discepolo è vigilante, non si addormenta, non si lascia prendere da eccessiva sicurezza quando le cose vanno bene, ma rimane attento e pronto a fare il proprio dovere.
Per esempio, nel Vangelo di Luca, Gesù dice: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che al suo ritorno il padrone troverà ancora svegli» (12,35-37).
Vigilare per custodire il nostro cuore e capire cosa succede dentro. Si tratta della disposizione d’animo dei cristiani che aspettano la venuta finale del Signore; ma si può intendere anche come l’atteggiamento ordinario da tenere nella condotta di vita, in modo che le nostre buone scelte, compiute a volte dopo un impegnativo discernimento, possano proseguire in maniera perseverante e coerente e portare frutto.
S e manca la vigilanza, è molto forte, come dicevamo, il rischio che tutto vada perduto. Non si tratta di un pericolo di ordine psicologico, ma di ordine spirituale, una vera insidia dello spirito cattivo. Questo, infatti, aspetta proprio il momento in cui noi siamo troppo sicuri di noi stessi, è questo il pericolo: “Sono sicuro di me stesso, ho vinto, adesso sto bene…” è quel momento che lo spirito cattivo aspetta, quando tutto va bene, quando le cose vanno “a gonfie vele” e abbiamo, come si dice, “il vento in poppa”. In effetti, nella piccola parabola evangelica che abbiamo ascoltato, si dice che lo spirto impuro, quando ritorna nella casa da cui era uscito, «la trova vuota, spazzata e adorna» ( Mt 12,44). Tutto è a posto, tutto è in ordine, ma il padrone di casa dov’è?
Non c’è. Non c’è nessuno che la vigili e che la custodisca. È questo è il problema. Il padrone di casa non c’è, è uscito, si è distratto, oppure è in casa ma addormentato, e dunque è come se non si fosse. Non è vigilante, non è attento, perché è troppo sicuro di sé e ha perso l’umiltà di custodire il proprio cuore. Dobbiamo custodire sempre la nostra casa, il nostro cuore e non essere distratti e andare… perché qui è il problema, come diceva la Parabola.
A llora, lo spirito cattivo può approfittarne e ritornare in quella casa. Dice il Vangelo che però non ci torna da solo, ma insieme ad altri «sette spiriti peggiori di lui» (v. 45). Una compagnia di malaffare, una banda di delinquenti. Ma – ci chiediamo – com’è possibile che possano entrare indisturbati? Come mai il padrone non se ne accorge? Non era stato così bravo a fare il discernimento e a cacciarli via? Non aveva avuto anche i complimenti dei suoi amici e dei vicini per quella casa così bella ed elegante, così ordinata e pulita? Già, ma forse proprio per questo si era innamorato troppo della casa, cioè di sé stesso, e aveva smesso di aspettare il Signore, di attendere la venuta dello Sposo; forse per paura di rovinare quell’ordine non accoglieva più nessuno, non invitava i poveri, i senza tetto, quelli che disturbano… Una cosa è certa: qui c’è di mezzo il cattivo orgoglio, la presunzione di essere giusti, di essere bravi, di essere a posto. Tante volte sentiamo dire: “Sì, io ero cattivo prima, mi sono convertito e adesso, ora la casa è in ordine grazie a Dio, e stai tranquillo per questo…” Quando confidiamo troppo in noi stessi e non nella grazia di Dio, allora il Maligno trova la porta aperta. Allora organizza la spedizione e prende possesso di quella casa. E Gesù conclude: « La condizione di quell’uomo diventa peggiore di prima» (v. 45).
M a il padrone non se ne accorge? No, perché questi sono i demoni educati: entrano senza che tu te ne accorga, bussano alla porta, sono cortesi. “No va bene, vai, vai, entra…” e poi alla fine comandano loro nella tua anima. State attenti a questi diavoletti, a questi demoni: il diavolo è educato, quando fa finta di essere un gran signore. Perché entra con la nostra per uscirne con la sua. Occorre custodire la casa da questo inganno dei demoni educati. E la mondanità spirituale va per questa strada, sempre.
C ari fratelli e sorelle, sembra impossibile ma è così. Tante volte perdiamo, siamo vinti nelle battaglie, per questa mancanza di vigilanza. Tante volte, forse, il Signore ha dato tante grazie e alla fine non siamo capaci di perseverare in questa grazia e perdiamo tutto, perché ci manca la vigilanza: non abbiamo custodito le porte. E poi siamo stati ingannati da qualcuno che viene,educato, e si mette dentro e ciao… il diavolo ha queste cose. Ciascuno può anche verificarlo ripensando alla propria storia personale. Non basta fare un buon discernimento e compiere una buona scelta. No, non basta: bisogna rimanere vigilanti, custodire questa grazia che Dio ci ha dato, ma vigilare, perché tu puoi dirmi: “Ma quando io vedo qualche disordine, me ne accorgo subito che è il diavolo, che è una tentazione…” sì, ma questa volta viene travestita da angelo: il demonio sa travestirsi da angelo, entra con parole cortesi, e ti convince e alla fine è la cosa peggiore dall’inizio… Bisogna rimanere vigilanti, vigilare il cuore. Se io domandassi oggi ad ognuno di noi e anche a me stesso: “cosa sta succedendo nel tuo cuore?” Forse non sapremo dire tutto: diremo una o due cose, ma non tutto. Vigliare il cuore, perché la vigilanza è segno di saggezza, è segno soprattutto di umiltà, perché abbiamo paura di cadere e l’umiltà che è la via maestra della vita cristiana.
Francesco
Ieri nel discorso in lingua italiana il Papa, continuando il ciclo di catechesi sul discernimento, ha incentrato la sua meditazione sul tema: “ La vigilanza” ( Lettura: Mt 12,43-45).
ANTICIPAZIONE
Da oggi nelle librerie il saggio del filosofo napoletano dedicato ai mondi virtuali
Per l’essere umano il metaverso sarà come la fissione nucleare
Il web è la nuova gleba a cui siamo asserviti e di fronte agli universi digitali il compito è salvare la presenza. Un processo che va governato contro il rischio di spaesamento
EUGENIO
MAZZARELLA
Se “il peccato di Facebook” fosse solo quello […] di aver messo in pericolo la democrazia americana il 6 gennaio 2021 con l’assalto al Congresso, sobillato e organizzato sul social web, […] la situazione sarebbe grave. Gravissima. Ma non ai limiti del sostenibile nel complessivo “shock antropologico”, sospinto da tecnica e globalizzazione, della “modernità del rischio” in cui viviamo ai tempi, già molto avanzati, del digitale e della intelligenza artificiale. Se nell’operato di Facebook, connivente con la tossicità sociale degli algoritmi di propagazione delle interazioni sulla sua piattaforma, ci fosse solo un peccato di lesa democrazia, si potrebbe rispondere […] con “algoritmi di polizia”, simmetrici per altro alla logica di controllo della rete in mano ai suoi padroni digitali. […] P urtroppo, le cose stanno peggio. E lo si può vedere con l’annuncio che da Facebook nascerà Metaverso. Dopo il disastro del 6 gennaio, l’immagine dell’azienda viene rilanciata usando il “verbo” con cui il giovane Zuckerberg aveva definito la “missione” di Facebook: la creazione di “un’infrastruttura sociale per dare alle persone il potere di costruire una comunità globale che funzioni per tutti noi”. Una mission che divenne ben presto, per la comunicazione pubblica dell’azienda, il “verbo” di Facebook: con una prostituzione delle parole – “comunità”, “per noi” – che da sola meriterebbe uno studio sulla “retorica” del digitale. La community, la “comunità per tutti noi”: l’apriti sesamo della caverna in cui, millantando il ritrovamento della comunità perduta, inghiottire la solitudine di massa, lo spaesamento dei miliardi di sradicati – dalle comunità locali, dalle culture tradizionali – della globalizzazione.
Q uesta community in cui tutti hanno potuto entrare con un click, l’annuncio della comunità a venire sul web a chi l’aveva persa, a fronte della nuova creatura di Zuckerberg, e poco piu di un protovangelo rispetto al nuovo vangelo che si annuncia con Metaverso. E qual e questo vangelo? Il trascendere oggi a disposizione, grazie al digitale e all’IA, del mondo reale nel mondo virtuale per il tramite della transitività tra i due mondi. Il nostro essere entrati nell’epoca dell’onlife, dove la dimensione vitale, relazionale, sociale e comunicativa, lavorativa ed economica, è vista, agita e proposta come frutto di una continua interazione tra la realtà materiale e analogica e la realtà virtuale è interattiva. Dove l’effetto gorgo, il buco nero dell’online fagocita sempre più la realtà offline, la vita come tale. Almeno fin qui come tale. Un peccato di “lesa vita” che è il vero shock antropologico in cui siamo immersi, e di cui abbiamo segni consistenti, ma forse non piena consapevolezza.
U no shock la cui sostanza è una ri-ontologizzazione digitale, agita dalle ICT e dalla AI, della realtà, trasformata in “infosfera” […] nella quale, gestita dagli algoritmi dell’IA, noi stiamo sradicando la nostra vita, il nostro esserci, dall’essere-nel-mondo di presenza fin qui abitato, promettendo un ampliamento degli spazi “vitali” accessibili all’esperienza individuale. Ancora una volta “l’individuo e i suoi diritti”, senza nessun dovere neanche verso sé stesso, che è il mantra sempre più nichilistico della razionalizzazione strumentale della modernità occidentale. Ed è in questa direzione che si sta muovendo Zuckerberg con Metaverso. […] dove sarà possibile tramite il funzionamento della sua tecnologia (visori, sensori e quant’altro) – analogico al nostro sistema percettivo – traslare la propria esperienza nel digitale tramite avatar (le nostre repliche digitali) ritenendola ancora la “propria” esperienza. […] Quel che è in gioco è l’enfatizzazione già in campo nel mondo del social web, che si avvia a transitare
nell’onlife, di concretissimi processi di alienazione sociale, esistenziali e finanche percettivi in obbedienza a un esse est percipi ormai declinato sempre più grazie al web in senso mediale-passivo come un essere percepiti che rimbalza e costruisce non solo il nostro percepire ma il nostro stesso percepirci. Il web essendo per comune ammissione la più potente tecnologia dimanipolazione del sé sociale – individuale e collettivo – che si sia mai conosciuta. Non ci si rende conto che il web è la nuova gleba a cui siamo asserviti, paradossalmente ancora piùstanziale della vecchia gleba, perché e racchiusa nel fazzoletto di terra di uno schermo che ci viene fornito a “casa”, senza neppure necessità che si esca “in campagna”. […] L a grande dismissionedel reale nel virtuale, questa è la posta in gioco dell’infosfera, la nuova parola- mondo con cui una filosofia troppo integrata al suo tempo, troppo poco inattuale, descrive e promuove oggi questa deriva dell’antropologia della tecnica. La forma- mondo della nostra realtà oggi, di un tempo-spazio in cui si trascendono l’uno nell’altro onlinee offline della vita, l’onlife, appunto, dove “ciò che e reale è informazionale e ciò che è informazionale è reale” (Floridi), con l’estensione dell’esserci umano in un nuovo ambiente: l’infosfera; un nuovo mondo a cui non ci si può sottrarre, come al reale hegeliano che in una sua equivocata lezione è sempre razionale, ha cioè le sue ragioni a cui non ci si può sottrarre e davanti a cui possiamo solo alzare le mani. […] In questo scenario, che è realissimo, e non apocalittica distopia narrativa, il compito è salvare la presenza come l’anima vitale, l’animazione vitale che ci fa lo spirito che siamo: e cioè l’incarnazione come presenza a sé di un’entità, un esserci – che è anche sempre un (eco)sistema di relazioni – che si prende addosso la sua carne. […] I l dossier digitale è sul tavolo del futuro. E non è semplicemente affare della pubblica amministrazione, ma della pubblica vita. È inutile, e irresponsabile, rifiutarsi di sfogliarlo. E ha almeno lo stesso peso dei dossier sul nucleare e l’ingegneria genetica che abbiamo dovuto aprire dopo Hiroshima e Nagasaki e la scoperta della doppia elica del Dna. Non governata, l’era digitale può davvero proporci un panorama di massa post-umano. Ha effetti di rischio, di spaesamentodell’umano a rischio di svellerlo da sé stesso e dal suo ambiente interno ed esterno non meno potenti della fissione nucleare e biologica che il ’900 ha imposto all’ambiente esterno e interno dell’umano. Non voltiamoci dall’altra parte, perché nobilitando con le parole di Rilke quel che può capitarci, rispetto al mondo di prima della presenza naturale, nella sintassi digitale della nuova realtà del suo mondo iperconnesso, rischiamo paradossalmente che “Qui tutto è distanza / e là era respiro. Dopo la prima patria / questa seconda gli è ibrida e ventosa” ( Elegie duinesi, Ottava Elegia).
Chiudo queste pagine mentre si muore nella realtà, e non nel Metaverso. Anche grazie alle ITC e all’AI. Questo per ricordare che cos’è la presenza.
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La grande dismissione del reale nel virtuale, questa è la posta in gioco dell’infosfera, la nuova parola-mondo con cui una filosofia troppo integrata al suo tempo, troppo poco inattuale, descrive e promuove oggi questa deriva dell’antropologia della tecnica Se nell’operato di Facebook, connivente con la tossicità sociale degli algoritmi di propagazione delle interazioni, ci fosse solo un peccato di lesa democrazia, si potrebbe rispondere con “algoritmi di polizia”
Prof. Morrone: “Occorre un ‘piano Marshall’ sanitario per l’Africa”
L’intervista di Interris.it al professor Aldo Morrone, direttore scientifico dell’Istituto San Gallicano, sulle priorità sanitarie dell’Africa
da
Dicembre 17, 2022
Ci vogliono scienza e coscienza, il pensiero e l’azione, la spinta interiore e la possibilità tecnica, unite insieme, per portare assistenza, cura e guarigione a quegli “invisibili”che vivono in quelle parti del mondo a cui prestiamo attenzione troppo di rado, nonostante le loro condizioni richiedano invece un tipo di intervento più impegnativo e strutturale. Anche perché, e la recente pandemia di Coronavirus ce l’ha insegnato, nel mondo globale sono globali anche la salute e la malattia. “La coscienza scientificami dice che se io non intervengo sulle cause delle malattie, nessuno può sentirsi al sicuro”, spiega a Interris.it il professor Aldo Morrone, direttore scientifico dell’Istituto di ricerca “San Gallicano” di Roma, esperto di patologie tropicali e di malattie della povertà, che da trent’anni si fa prossimo agli ultimi del mondo andando a intervenire nei loro stessi Paesi. Morrone, che si è occupato anche di medicina transculturale, focalizzando la sua attenzione sulla salute dei migranti e delle fasce a rischio di emarginazione sociale, ha infatti svolto missioni internazionali in India, a Sheraro inEtiopia, e in Libano per promuovere il miglioramento delle condizioni socio-sanitarie della popolazione rifugiata dalla Siria e delle comunità libanesi ospitanti. Interris.it lo ha intervistato sulla sua esperienza al fianco di quelle che chiama le “persone dimenticate” e sulle priorità sanitarie dell’Africa.
Cuore, scienza ed etica
L’impegno di dedicarsi agli altri, alla loro salute e alle loro malattie, è presente in Morrone fin dalla gioventù, grazie a tre figure molto speciali: “Ho scelto di voler diventare medico quando, da ragazzo, ho sentito parlare di Albert Schweitzer, uno dei più grandi di questa professione, che oltre alla scienza ha saputo avere cuore ed eticaverso i malati. Oltre a lui anche il presbitero francese Abbé Pierre, che aveva a cuore le persone povere, e il filantropo Raul Foullereau, che si è dedicato alla causa dei malati di lebbra.” La cura delle persone fragili, spiega il direttore scientifico del San Gallicano, dai senza dimora delle metropoli occidentali agli abitanti delle aree rurali dell’Africa, è fondamentale per la salute di tutti gli esseri umani, per cui è a loro che per primi occorre riportare dignità e salute, utilizzando le terapie più aggiornate ed efficaci. Una lezione sempre valida, riattualizzata dalla pandemia, che il professore ha appreso alla fine degli anni Ottanta, quando è andato per la prima volta in Etiopia e in Africa orientale per dare un aiuto a chi soffriva del morbo di Hansen, una malattia purtroppo a lungo, e ancora oggi, “aggravata” dai pregiudizi e dallo stigma sociale. E’ infatti più comunemente nota come lebbra.
Le malattie delle persone dimenticate
Il morbo di Hansen rientra in quelle che oggi l’Organizzazione mondiale della Sanitàchiama malattie tropicali neglette, un gruppo eterogeneo di 20 patologie diffuse principalmente nelle aree tropicali e quasi assente dall’agenda sanitaria globale. Causate da una varietà di agenti patogeni tra batteri, parassiti, virus, tossine e funghi, queste colpiscono oltre un miliardo di persone che vivono in comunità povere. “Io le chiamo le malattie tropicali delle persone dimenticate”, sottolinea Morrone, “e vanno dalle malattie infettive alla scabbia, dall’oncocercosi al morso di serpente. La lebbra è una malattia dimenticata perché colpisce gente dimenticata, ma per chi vive nei Paesi occidentali dove sono meno diffuse il rischio di infettarsi con queste malattie in caso di viaggio è alto”. I microrganismi non si fermano ai confini, continua, “e se non studiamo e salviamo le persone rappresentano un rischio per tutti, come abbiamo visto con il Covid”.
One health
A proposito della pandemia che è entrata nelle nostre vite nel 2020, il professore indica quale lezione tutto il mondo, medico-scientifico ma non solo, dovrebbe aver appreso. Il principio one health, cioè che la salute del pianeta, delle piante, degli animali e degli uomini sono unite tra loro. “La maggior parte delle pandemie è dovuta agli animali, per cui se non rispetteremo la natura seguendo la logica del profitto non potremmo evitare quei salti di specie da cui prendono il via le zoonosi”, illustra il medico. “Il rispetto per gli esseri umani non può prescindere dal rispetto per gli animali e la natura. Abbiamo lo stesso codice genetico, siamo tutti fratelli e sorelle, come diceva san Francesco d’Assisi”, aggiunge.
Le priorità sanitarie dell’Africa
Rievocando il programma politico-economico statunitense per la ricostruzione dell’Europa che era uscita dalla Seconda guerra mondiale, Morrone dichiara che per intervenire sulle priorità sanitarie dell’Africa ci sarebbe bisogno di un piano Marshall “sanitario” per l’Africa. “Occorre investire nel miglioramento delle scuole universitarie e delle tecnologie, sui salari dei medici, facilitare lo scambio di conoscenza e buone pratiche non solo a livello di piattaforme informatiche ma facendoli venire a studiare in Occidente e andando noi da loro per osservare la vicino le cause delle malattie, serve continuare le attività con un impegno sistematico che diventi strutturale e sia autosostenibile”, spiega il direttore scientifico del San Gallicano. “Oggi in Africa possiamo diagnosticare il cancro, le malattie dismetaboliche, le gastropatie, cosa che prima era più difficile, ma i Paesi sub-sahariani sono molto poveri e i farmaci di nuova generazione hanno prezzi proibitivi per l’Africa”, prosegue, “così non possiamo curare quelle malattie che in Occidente curiamo facilmente”. “La salute deve restare fuori dalla logica del profitto”, aggiunge.
Povertà e conflitti
Il professore riconosce che in diverse parti dell’Africa le condizioni di vita sono decisamente migliorate sotto i profili abitativi, scolastici, sanitari e tecnologici, ma osserva che in parallelo si è allargata la forbice delle diseguaglianze tra “la minoranza che gode di condizioni economiche avanzate e la maggioranza che è precipitata in condizione di forte impoverimento negli ultimi 10-15 anni, con l’aumento del fenomeno migratorio e le guerre”. Un conflitto dimenticato, quasi invisibile agli occhi occidentali è la guerra civile nella regione del Tigray, in Etiopia, scoppiata nel novembre 2020, dove lo scorso mese sono cessate le ostilità e si sarebbe avviato un processo di pace. “In due anni cinque milioni di persone sfollate e 100mila vittime nell’indifferenza quasi totale dell’Occidente”, dice Morrone, “mentre dopo i massacri in Ruanda e le segregazioni razziali in Sud Africa, che hanno lasciato segni indelebili e gravano anche sulle nostre coscienze, dovremmo avere uno sguardo più ampio su tutto il mondo – grazie anche alla tecnologia che oggi ce lo permette”.
CARRIERA ALIAS NELLE SCUOLE: UNA PROCEDURA ILLEGALE E CONTRARIA AL SUPERIORE INTERESSE DEI MINORI
DIC 17, 2022
Lo scorso 13 dicembre il Centro Studi Livatino, assieme ad una delegazione di associazioni che operano a tutela della libertà educativa dei genitori, è stato ricevuto dal Sottosegretario di Stato al Ministero dell’Istruzione e del Merito, on. Paola Frassinetti, relativamente alla questione della carriera alias nelle scuole.
Si tratta di una procedura attivata da circa un centinaio di scuole italiane, in base alla quale, si legge nel documento consegnato al Sottosegretario, «viene consentito agli studenti che ne facciano richiesta di sostituire – nei documenti interni alla scuola, negli elenchi e nei registri scolastici – il proprio nome anagrafico con altro nome di elezione corrispondente a diverso genere».
Secondo il regolamento sui cui si basa la carriera alias – elaborato da privati appartenenti ad associazioni LGBT sostenitrici della teoria gender e della fluidità del genere ‒ lo scopo della procedura sarebbe quello di prevenire e contrastare fenomeni di bullismo nei confronti di studenti con disforia di genere. Pur non mettendo in dubbio la buona fede che può aver mosso i sostenitori della carriera alias e dei dirigenti che l’hanno attivata – ha sottolineato l’avv. Daniela Bianchini del Centro Studi Livatino ‒ è evidente che si tratta di una procedura che non soltanto è inidonea al raggiungimento dello scopo indicato, ma è persino pregiudizievole in quanto può rafforzare negli adolescenti e preadolescenti (di per sé vulnerabili e insicuri per i cambiamenti fisici dovuti all’età dello sviluppo) il convincimento che la soluzione alla propria sofferenza sia la transizione di genere.
Ebbene, non bisogna dimenticare che la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989, ratificata dall’Italia con la Legge n. 176/1991, all’art. 3 dispone che «in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente». Come noto, non si tutela l’interesse di un minore di età assecondando pedissequamente i suoi desideri, bensì ascoltando le sue esigenze, i suoi timori, le sue aspettative ed individuando soluzioni in grado di consentirgli una crescita sana ed equilibrata.
L’avv. Bianchini ha a tal proposito messo in evidenza al Sottosegretario Paola Frassinetti che la scuola ha il compito di formare gli studenti secondo verità e nel rispetto delle leggi.
La carriera alias si basa invece sull’alterazione dei nomi e dell’identità personale degli studenti, esulando dalle competenze scolastiche e violando, oltre che l’art. 97 della Costituzione, anche le leggi ordinarie in materia. L’art. 6 del codice civile stabilisce infatti che «ogni persona ha diritto al nome che le è per legge attribuito […] non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con le formalità dalla legge indicati». Secondo l’art. 5 dell’Ordinanza Ministeriale del 2 agosto 1993 n. 236, «1. il Registro di classe documenta gli aspetti amministrativi della vita di ciascuna classe; 2. La compilazione dei dati anagrafici degli alunni è di competenza dell’ufficio di segreteria della direzione didattica; 3. I docenti contitolari sono responsabili della tenuta e dell’aggiornamento del Registro; 4. Il Registro di classe riporta: l’elenco e dati anagrafici degli alunni, presenze e assenze; i nominativi dei docenti che operano nella classe, ambiti disciplinari o discipline loro assegnati; orario delle attività didattiche; verbali degli scrutini e degli esami, dati statistici riassuntivi».
L’avv. Bianchini, oltre a rappresentare la necessità di un intervento da parte delle autorità competenti a tutela degli studenti minorenni e per salvaguardare la fiducia che i genitori devono poter continuare ad avere nei confronti dell’istituzione scolastica, ha sottoposto all’attenzione del Sottosegretario anche la difficile situazione in cui si trovano i docenti, specie quelli che sono contrari alla carriera alias in quanto la ritengono illegittima e lesiva dei minori: nelle scuole dove questa procedura è stata attivata, infatti, i docenti sono di fatto costretti a violare le leggi dello Stato e porre in essere comportamenti sanzionati anche penalmente (cfr. art. 479 cod. pen. “falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiali in atti pubblici”) per dare seguito ad una procedura illegale.
Tutto ciò ha determinato nelle scuole contrasti e divisioni, che continueranno ad esservi fino a quando le autorità competenti non interverranno per fare chiarezza e porre fine ad una procedura che, lungi dal tutelare gli studenti, porta solo scompiglio nelle scuole e veicola l’ideologia gender che il MIUR, già nel 2015, ha ritenuto non rientrante «tra i diritti e i doveri e tra le conoscenze da trasmettere» a scuola.
Pro vita e famiglia con 50.000 firme ha ottenuto udienza dal Ministro che ha risposto: “ Rifletterà”
La mappa 2023 delle emergenze umanitarie. Ecco dove il nuovo anno fa più paura
La Somalia è stata duramente colpita dalla guerra in Europa Orientale perché dipende per il 90% dalle importazioni ucraine e russe di cibo. La lista dei paesi che rischiano di più nei prossimi dodici mesi
da
Dicembre 16, 2022
Sos emergenze umanitarie. Somalia e Etiopia, pesantemente colpite dalla crisi, sono in cima alla lista di controllo del gruppo di aiuto per il 2023. Entrambe le nazioni del Corno d’Africa sono devastate dalla siccità e dai conflitti. Saranno i Paesi che destano maggiore preoccupazione nel 2023. Secondo la “watchlist” annuale del gruppo di aiuti International rescue committee (Irc). Il rapporto elenca 20 Paesi, 11 dei quali in Africa. Sono le nazioni che secondo il comitato sono a maggior rischio di nuove crisi o di un loro peggioramento l’anno prossimo. E che ospitano l’80% di tutte le persone che affrontano una grave insicurezza alimentare. Nonostante rappresentino solo il 13% della popolazione globale.
“Watchlist” emergenze
In cima alla lista per la prima volta c’è la Somalia. Sono gli effetti combinati di una siccità durata due anni. Di un’insurrezione islamista. E dell’aumento dei prezzi alimentari a livello globale. Tutto ciò ha provocato carenze alimentari catastrofiche. Una situazione tragica che provoca la morte di centinaia di bambini. E che è destinata a peggiorare. Il gruppo militante Al Shabaab ostacola l’accesso umanitario. Un’escalation di combattimenti tra questo gruppo e le forze governative alla fine del 2022 suggerisce che il conflitto potrebbe continuare a intensificarsi nel 2023, avverte la Cri. David Miliband, capo dell’Irc, segnala che milioni di somali sono affamati. E che i Paesi ricchi non dovrebbero aspettare una dichiarazione ufficiale di carestia per colmare il vuoto di fondi di un miliardo di dollari nell’appello delle Nazioni Unite per la Somalia.
La regione autonoma del Tigrè, in Etiopia
Carenza di fondi
“Il sottofinanziamento dell’appello è un’ovvia dimostrazione che il mondo pensa che non sia un momento urgente. È un errore – afferma Miliband alla Reuters-. Molti Paesi ricchi sono troppo concentrati su se stessi”. E questo non è giusto né moralmente né strategicamente. “L’insularità, lo sguardo rivolto verso l’interno di troppe parti del mondo più ricche sta provocando danni colossali. Lasciando troppe parti del mondo più povere a dover badare a se stesse in una maniera che non sono in grado di fare”, aggiunge Miliband. Ed evidenzia che la guerra in Ucraina sta aggravando il problema perché i Paesi ricchi sono concentrati su di essa. Al tempo stesso Milliband elogia gli Stati Uniti, notando che stanno fornendo il 90% degli aiuti alla Somalia. “Negli Usa laguerra russo-ucraina non viene strumentalizzata come scusa per rinunciare ad affrontare i problemi globali. Anzi l’amministrazione Biden la sta usando come motivo per essere coinvolta nell‘Africa orientale“.
Terreno da recuperare
La Somalia è stata duramente colpita dall’invasione russa dell’Ucraina. Perché dipende pericolosamente dalle importazioni di cibo. Con il 90% delle forniture di grano provenienti da Russia e Ucraina. Si stima che in Etiopia 20 milioni di persone non abbiano abbastanza da mangiare. Qui è stato firmato lo scorso mese un cessate il fuocofirmato tra il governo federale e le forze della regione del Tigray. Ciò, dopo due anni di guerra civile, ha fatto sperare in un miglioramento dell’accesso umanitario. “Ci sono stati alcuni flussi di aiuti- precisa Miliband-. Ma abbiamo un’enorme quantità di terreno da recuperare“. Gli altri Paesi classificati tra i primi 10 nella lista 2023 dell’International Rescue Committee sono Afghanistan, Repubblica Democratica del Congo. Yemen, Siria, Sud Sudan. Burkina Faso, Haiti e Ucraina.
In prima linea nelle crisi
David Miliband è presidente e amministratore delegato dell‘International Rescue Committee. All’Irc supervisiona le operazioni di soccorso umanitario dell’agenzia in oltre 40 Paesi colpiti dalla guerra. E i programmi di reinsediamento e assistenza ai rifugiati in 28 città degli Stati Uniti. Sotto la guida di Miliband, l’IRC ha ampliato la sua capacità di rispondere rapidamente alle crisi umanitarie. E di soddisfare le esigenze di un numero senza precedenti di persone sradicate da conflitti, guerre e disastri. L’organizzazione sta attuando una strategia globale per portare risultati chiari. Prove solide. E ricerca sistematica nei programmi umanitari. Attraverso partnership collaborative con il settore pubblico e con quello privato. Dal 2007 al 2010, Miliband è stato il 74° Segretario di Stato per gli Affari esteri del Regno Unito. Guidando i progressi nei diritti umani. E rappresentando il Regno Unito in tutto il mondo.
Risultati record
Nel 2006, in qualità di Segretario di Stato per l’Ambiente, Miliband è stato il pioniere dei primi requisiti di riduzione delle emissioni legalmente vincolanti al mondo. È stato membro del Parlamento per South Shields dal 2001 al 2013. I suoi risultati gli hanno fatto guadagnare la reputazione, secondo l’ex presidente Usa Bill Clinton, di “uno dei più abili e creativi funzionari pubblici del nostro tempo”. E di efficace e appassionato sostenitore delle popolazioni sradicate e povere del mondo. I genitori di Miliband sono fuggiti in Gran Bretagna dall’Europa continentale durante la Seconda Guerra Mondiale. “Da figlio di rifugiati porto un impegno personale nel mio lavoro”. spiega.