Quarant’anni fa san Giovanni Paolo II firmava la lettera apostolica “Salvifici doloris” sul senso cristiano della sofferenza. Un testo oggi ancor più attuale. Parla l’assistente dei Medici cattolici
L’11 febbraio del 1984 san Giovanni Paolo II firmava la lettera apostolica Salvifici doloris destinata a cambiare la pastorale della salute e lo stesso sguardo della Chiesa verso il mondo della malattia e della sanità. Un testo di svolta.
«Il valore della Salvifici doloris? Un antidoto contro la cultura della morte. L’ho scoperto stando accanto ai malati. E più vado avanti, più mi convinco che san Giovanni Paolo II è stato profetico anche con questo documento». Parola del cardinale Edoardo Menichelli, arcivescovo emerito di Ancona-Osimo e assistente nazionale dei Medici cattolici. «Quando la lettera apostolica uscì, l’11 febbraio 1984 – ricorda – , ero impegnato tra l’altro nella cura pastorale dei malati in una clinica romana. In quel testo trovai un motivato coraggio nel proporre con delicatezza e nel rispetto della coscienza di ognuno il senso salvifico della sofferenza». Quarant’anni dopo il porporato non ha cambiato idea. «Quella – sottolinea – è la chiave di lettura del testo di papa Wojtyla». Una riflessione a vari livelli (antropologico, biblico-teologico, cristologico, ecclesiologico) sul dolore e sul male, per dare un senso cristiano alla sofferenza umana e indicare le linee per una fruttuosa pastorale della salute.
Eminenza, quale fu la novità introdotta dalla lettera?
La nostra pastorale degli ammalati era abituata a citare san Paolo («completo nella mia carne quello che manca alla Passione di Cristo»), ma forse non si riusciva a farne comprendere il significato spirituale. San Giovanni Paolo II ha trovato la formula giusta per dire che possiamo diventare collaboratori della salvezza innestando la sofferenza umana nella croce di Cristo, e perciò dobbiamo avere anche il coraggio di parlare della necessità della sofferenza. Gesù ci dice: «Chi vuol essere mio discepolo, prenda la sua croce e mi segua». E io non conosco una croce che sia comoda. Ma è condizione per andare dietro a Gesù. Con le parole giuste e la giusta compassione, non possiamo nascondere questo aspetto.
Qui è anche la sua perdurante attualità?
Sicuramente. Perché la Salvifici doloris prospetta non solo una nuova visione teologica, ma ci consegna anche una prassi spirituale e pastorale. Il richiamo diffuso della testimonianza di Cristo che, come dice il Papa, soffre volontariamente e innocentemente, è un tesoro prezioso a disposizione di quanti sono impegnati in questo ministero. E non mi riferisco solo ai cappellani ospedalieri, ma a ogni sacerdote che nell’esercizio del suo ministero impatta con questa realtà. E anche ai laici che li aiutano.
Possiamo dunque dire che la Salvifici doloris ha fondato la nuova pastorale sanitaria?
Sicuramente l’ha rinvigorita e orientata. Ma tocca a noi far sì che questo documento diventi vita vissuta.
Quanto ha contato l’esperienza personale di san Giovanni Paolo II nella sua stesura?
Molto. Non dimentichiamo che già nel 1984 aveva sperimentato abbondantemente la sofferenza. Ma poi quello che ha scritto l’ha rispecchiato con la sua vita, che nei diversi passaggi della malattia è stata per tutti noi non solo testimonianza di fede, ma anche di un amore sconfinato verso Gesù Cristo e la sua croce. Tra i profili di attualità ce n’è però anche un altro che vorrei mettere in evidenza.
Quale?
Il dolore corrobora la nostra speranza. E ciò è particolarmente importante in vista del prossimo Giubileo. Noi, infatti, dobbiamo sempre fare riferimento al mistero pasquale nella sua completezza. Non c’è solo la croce e il morire, ma anche la speranza della risurrezione. Il sepolcro è vuoto, da lì viene la nostra speranza. Perciò mi auguro che l’Anno Santo sia vissuto alla luce di questa indicazione.
Eppure, oggi la società ha paura del dolore, fino a negarlo del tutto. In che modo la lettera può aiutarci?
In effetti viviamo un tempo della cultura rovesciata, in cui non si capisce il dolore e la morte e si finisce per non capire neanche la vita. Siamo dentro la regola dell’effimero, dell’efficienza. Ce lo ricorda anche il messaggio di papa Francesco per la Giornata del Malato di domenica prossima, quando dice che l’efficienza è spietata nei confronti dell’umanità. Perché se non sono efficiente sono inutile. E allora c’è anche il tentativo di cancellare la sofferenza, soprattutto quella fisica. Tant’è che questa cancellazione si traveste da ragionevolezza per invocare e attuare la morte. Se soffri, se non puoi guarire, che senso ha la tua vita? In questa cultura dovremmo essere sereni annunciatori del valore della croce e soprattutto del valore della risurrezione. Il cristiano deve incarnare Gesù Cristo nella storia. Se non riesce a farlo c’è il rischio di diventare insignificanti.
Tema quanto mai attuale, visto il dibattito sul suicidio assistito. Come essere vicini a chi dice di trovare insopportabile la propria sofferenza?
C’è una parola che dobbiamo recuperare tutti. La relazione. Siamo dentro una storia di solitudini perché abbiamo segato le relazioni. Ne parlavo recentemente con i ministri straordinari dell’Eucaristia: perché non creare nelle nostre parrocchie i gruppi della compagnia, anche al di là del compito di portare la comunione a casa degli ammalati? Una parola oggi, una parola domani, detta con umanità e con vicinanza, può portare anche chi non vive una storia spirituale non intensa ad aprirsi a una diversa prospettiva. Nella mia esperienza pastorale, l’ho sperimentato spesso. Più cresciamo nella relazione di vicinanza, nella samaritanità, cioè nella compassione del Samaritano, più riusciremo a combattere la cultura della morte, che si manifesta anche attraverso la richiesta di suicidio assistito.
Come vede il futuro del Servizio sanitario nazionale e la carenza di medici e infermieri?
Le cose non vanno del tutto bene. Occorre recuperare alcuni concetti fondamentali. Prima di tutto la centralità della persona, tanto più in quanto persona malata. Poi, lo Stato, a prescindere da chi governa, si deve rendere conto che ha bisogno di un popolo sano. Se lo cura bene, anche l’efficienza e la produttività aumentano. Terzo: bisogna ri-umanizzare la medicina, specie in presenza di intelligenza artificiale e mezzi tecnologici avanzati. Occorre abbandonare l’idea che l’ammalato sia un numero o un posto letto. E da ultimo recuperare la dignità del curare. Anche attraverso l’alleanza terapeutica.
Servono anche più risorse per il SSN?
Non mi faccia entrare in questioni che non mi competono. Le risorse servono, certo, ma non è solo questo. Tutto deve concorrere alla salute dei cittadini. Compresa la formazione dei medici. Formazione anche spirituale. Come assistente dei Medici cattolici vedo che ce n’è un gran bisogno.