Oggi si celebra la XXXII esima Giornata Mondiale del Malato creata nel 1992 da S. Giovanni Paolo II, con l’intento di ricordare in particolare tutti coloro che soffrono a causa di una malattia. Per questa giornata Papa Francesco ha scelto come tema: “Non è bene che l’uomo sia solo” (Gen 2,18). “Fin dal principio, Dio, che è amore ha creato l’essere umano per la comunione, inscrivendo nel suo essere la dimensione delle relazioni. Siamo creati per stare insieme, non da soli. L’esperienza dell’abbandono e della solitudine ci spaventa e ci risulta dolorosa e perfino disumana. Lo diventa ancora di più nel tempo della fragilità, dell’incertezza e dell’insicurezza spesso causate dal sopraggiungere di una qualsiasi malattia seria”. Così Papa Francesco nel suo messaggio in occasione di questa giornata.
Su tali parole, sembra utile fare un’attenta riflessione attraverso la parabola del buon Samaritano dove sono presenti tutti i valori propri di questa giornata dedicata al malato: il farsi prossimo, il soccorrere, la sofferenza, il curare, il prendersi cura. La sofferenza, spesso, genera il senso dell’abbandono e della solitudine che, in alcuni casi, assale chi è affetto da una malattia.
Attraverso le sei espressioni contenute nel vangelo di Luca, infatti: “Lo vide – Ne ebbe compassione – Gli si fece vicino – Gli fasciò le ferite – Lo portò ad una locanda – Si prese cura di lui”, è racchiuso tutto quello che dovrebbe essere l’atteggiamento relazionale nei confronti del sofferente, “Non è bene che l’uomo sia solo”, evocato da Papa Francesco. Specificatamente nel testo evangelico leggiamo “Ne ebbe compassione”.
Nel malato c’è il bisogno infatti della compassione da parte di chi lo circonda, “Cum Passio” che etimologicamente è: “soffrire insieme”. Significa, specificatamente, entrare in sintonia con lo stato d’animo del sofferente, evocando il proprio sentimento più profondo che tende a cogliere e condividere il suo dolore, rappresentando, noi, un sostegno attraverso il quale possa sentirsi ascoltato, accolto e accettato. Proprio sul valore del “Farsi Prossimo”, fa riflettere la scritta che è sul portale dell’Hotel Dieu, il più antico ospedale di Parigi, che testualmente dice: “Se sei malato vieni e ti guarirò, se non potrò guarirti ti curerò, se non potrò curarti ti consolerò”. Guarire, curare, consolare, tre verbi che si compendiano nell’eterno mistero del dolore che pone al malato la domanda: perché? perché proprio a me? – perché devo morire ora?
E l’interrogarsi prosegue sul senso della sofferenza e su quale ne sia il significato. L’uomo sente di essere fatto per la vita e la malattia viene avvertita come un limite ed è subita come una negatività fino ad una sorta di schiavitù, ed allora la liberazione da essa diviene una vera e propria necessità. Certamente la sofferenza pone l’uomo in crisi, ed è per questo che cerca di liberarsene in ogni modo, ma può rappresentare anche un’occasione salvifica particolare nella vita di una persona in cui si è chiamati a verificare sé stessi, a mostrare il vero volto e ad indicare il proprio valore. Come afferma Papa Francesco “La sofferenza non è un valore in sé stesso, ma una realtà che Gesù ci insegna a vivere con l’atteggiamento giusto” ed aggiunge “ci sono, infatti modi giusti e modi sbagliati di vivere il dolore e la sofferenza”.
Nell’ambito delle cure, è compito dei medici quello di farsi prossimi e intervenire soprattutto nel campo delle fragilità; in particolar modo nei confronti dei minori, delle ragazze madri che spesso per necessità economiche sono costrette all’aborto, dei disabili fisici e intellettivi, dei malati terminali, degli anziani, degli emarginati. Non occorre poi dimenticare la problematica relativa alla medicina diseguale che, purtroppo, regna nel nostro Paese e fa sì che, ad oggi, siano quasi cinque milioni i cittadini che vivono in assoluta povertà e che quindi con difficoltà hanno accesso alle cure.
Essere medico, pertanto, non significa solamente fare diagnosi o prescrivere una adeguata terapia, ma è farsi carico dell’altro cercando di penetrare con discrezione nel suo vissuto, di trasferire la propria scienza e agire con coscienza verso il sofferente, capirne i timori, donargli speranza migliorando la sua condizione di sofferenza, fargli capire che tu sei con lui e che il tuo non è un semplice rapporto professionale ma qualcosa di più profondo. Se un medico infatti, non si limita ad essere semplicemente un operaio della salute, non si accontenterà di alleviare solamente il dolore fisico, ma anche quello morale che, inevitabilmente, si accompagna al calvario della malattia.
Cercare quindi di “prendersi cura”, è molto di più che semplicemente “curare”; la dignità del malato, infatti, è un valore fondamentale della persona umana. Per questo motivo, oltre alla presa in carico delle diverse patologie, occorre avere attenzione anche al contesto sociale e agli aspetti psicologici che il paziente deve affrontare con l’insorgere della malattia.
Recentemente, sulla tematica del fine vita, è riemerso prepotentemente il tentativo di legalizzare il suicidio medicalmente assistito con una proposta di legge, ai vari consigli regionali, che poggia essenzialmente su due principi: ridurre a venti giorni il tempo intercorso tra richiesta e assistenza al suicidio medicalmente assistito e la gratuità della prestazione inserendola nei LEA (livelli essenziali di assistenza), tradendo così la funzione del SSN (Sistema Sanitario Nazionale) e di quello Regionale, la cui finalità è quella di fornire e non sottrarre salute.
Nessun accenno infine alle cure palliative, normate dalla legge n. 38/2010, con il rischio in tal modo di innescare l’equazione: malattia inguaribile = suicidio assistito. Il poter accedere su tutto il territorio nazionale alle cure palliative, che hanno il compito di alleviare le sofferenze del malato grave, potrà, al contrario, ridurre in maniera significativa le eventuali future richieste relative al suicidio medicalmente assistito. Essenzialmente le cure palliative tendono infatti ad assicurare al paziente: l’idratazione, il controllo del dolore, la ventilazione, l’igiene della persona, elemento spesso trascurato, ma che assicura al sofferente il sollievo, la dignità ed il rispetto del proprio corpo.
In realtà se non tutte le malattie sono guaribili tutte sono curabili, siamo profondamente convinti pertanto che l’aumento del numero dei centri delle terapie palliative e il sostegno concreto e psicologico ai caregiver, possano certamente ridurre le richieste di suicidio assistito facendo sentire il sofferente non come peso per la famiglia e la Società, ma come persona che possa essere accompagnata verso una fine dignitosa.
Stefano Ojetti