La grande questione etica che emerge nella discussione sul fine vita

Era il 16 giugno 2022, quando Federico 44enne, tetraplegico da 12 anni dopo un incidente stradale, moriva nella sua casa di Senigallia, primo caso in Italia di suicidio assistito. Da allora come prevedibile si sono susseguiti altri casi nelle Marche, Umbria, Toscana fino ai casi recenti di due suicidi assistiti autorizzati nel territorio della ASL 3 di Napoli.

Le preoccupazioni avanzate, dopo l’approvazione nel 2017 della L. 219 sulle DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento) quale precorritrice di una legge che legalizzasse, oggi il suicidio assistito e verosimilmente in futuro l’eutanasia, si sono nel tempo rivelate fondate nel “trionfo dell’autodeterminazione” e la “banalizzazione della morte” con la sentenza della consulta (242/2019) che ha legittimato, in assenza di una legge, il diritto al suicidio assistito in determinate condizioni

Questa scelta di morte, annosa questione presente fin dai tempi d’Ippocrate, denuncia di fatto una regressione etica che nel corso dei secoli è passata dal rispetto  Ippocratico assoluto della vita dal suo inizio: “non fornirò mai ad una donna un mezzo per procurare un aborto”, fino al suo termine naturale, “non somministrerò a nessuno, neppure se richiesto, alcun farmaco mortale”, ad una cultura di morte che in un prossimo futuro, poco spazio lascerà al disabile grave, all’anziano non autosufficiente, al malato terminale certamente depresso, angosciato, obnubilato e troppo spesso lasciato solo nella sua vita di sofferenza.

Viene da chiedersi come si sia potuti giungere a un tale deterioramento etico, in un Paese come l’Italia, dove certi valori, come il rispetto e la tutela della vita, sono stati sempre salvaguardati e garantiti dalla Costituzione.

Per comprendere questo, bisogna riallacciarsi alla teoria della “Finestra di Overton”, sociologo americano che spiega come si possano “manipolare le masse” trasformando gradualmente un’idea da completamente inaccettabile a pacificamente accettata, e infine legalizzata.

Secondo questa teoria infatti qualunque idea, pur se assurda e dannosa, può trovare una sua “finestra” di opportunità nel pensiero diffuso e dominante; in ciò agevolata, nell’era di internet e dell’intelligenza artificiale, da “Grandi Fratelli” invisibili.

Se si guarda infatti a ciò che sta succedendo attualmente nella nostra collettività, ci si accorge come situazioni che ci avrebbero fatto inorridire nei decenni passati, a poco a poco sono diventate banali e quindi accettabili, proprio come sostenuto da Joseph Overton, lasciandoci oggi per lo più indifferenti.

Il percorso e le tappe, attraverso le quali tali sequenze si realizzano, si sintetizzano progressivamente e senza che ne prendiamo coscienza, in queste sei fasi successive:

1) Impensabile: l’idea e i comportamenti annessi risultano impresentabili; 2) Divieto: sì ma con qualche eccezione; 3) Accettabile: io non lo farei mai, ma perché impedirlo ad altri? 4) Ragionevole: non c’è nulla di male; 5) Diffuso: rappresenta ormai un sentire comune (testimonials, cantanti, attori, programmi televisivi ecc.); 6) Legale: l’idea viene ufficialmente recepita nell’ordinamento dello Stato. L’obiettivo è raggiunto.

E’ un po’ quello che succede nel “principio della rana bollita”, vecchio esperimento ottocentesco che mostra come, se la cavia viene gettata in acqua bollente automaticamente salta per sottrarsi alla morte, ma se posta in acqua che si scalda pian piano, gradualmente e senza accorgersene, si abitua fino a divenire bollita.

E’ quanto già è accaduto e accade nelle diverse dittature dove interi popoli, non sempre a seguito di volontà autoritarie, si sono trovati ad un certo punto a pensare tutti alla stessa maniera.

Ed è proprio quello che sta succedendo ora nella nostra Società dove, secondo il pensiero unico dominante, si sta cercando attualmente di indirizzare, attraverso l’anestetizzazione delle coscienze, verso derive eutanasiche come panacee della sofferenza, attraverso legiferazioni che lasciano molti dubi sulla reale soluzione dei problemi

Risulta del tutto evidente infatti, che l’eventuale approvazione di una legge suicidaria, aprirà una molteplicità di problematiche di tipo etico, giuridico e sociale. Il medico infatti non sarà più chiamato come sua specificità ad essere datore di salute, ma al contrario sarà un mero esecutore di morte.

La grande questione etica che emerge nella discussione sul fine vita può essere riassunta sinteticamente nel: “Se, Come e Quando”: se Interrompere le cure, in che misura, ed eventualmente quando interromperle. A questi quesiti non esiste legge che possa rispondere, essendo “il Se, il Come e il Quando” di esclusiva pertinenza medica.

Chi infatti, se non il medico, che conosce il paziente, la sua storia clinica, il suo vissuto, le sue fragilità, la paura che ha della morte, può essere in grado di aiutare e capire il perché di un rifiuto della terapia o di un’eventuale richiesta di suicidio medicalmente assistito? Chi si preoccupa minimamente del “Perché” e di quali siano le eventuali ragioni per cui un paziente può giungere ad una tale richiesta?

Perché ha dolore o difficoltà respiratoria, trascurato magari dal suo medico curante? Ha accesso alle cure palliative ed è assistito convenientemente nella sedazione del dolore e nella ventilazione? Così come è curata decorosamente la sua igiene individuale e salvaguardata la sua dignità di persona?

E chi deve stabilire qual è la sottile linea di confine tra accanimento ed abbandono terapeutico: il malato, che nella maggior parte dei casi è depresso, angosciato, sofferente ed obnubilato nel percepire il mondo esterno, il tutore o il familiare?

O piuttosto tale decisione deve essere valutata, come nei millenni di Ars Ippocratica, dal medico in un rapporto di collaborazione con il paziente? Per rispondere a tali quesiti è necessario che, nel rapporto medico paziente, non ci siano terzi come la politica o il legislatore ma che si ristabilisca quell’alleanza terapeutica che sola potrà accompagnare il paziente a morire con dignità.